La disciplina della terra

Il desiderio di raccontarmi nasce dal desiderio di essere compresa, ascoltata. Ancor prima nasce il mio diletto per la contemplazione. Negli anni ci saranno quei momenti in cui contemplare non vorrà sempre dire guardare albe o tramonti, ma significherà vegetare in situazioni paralizzanti, fortunatamente alternate parzialmente da lunghi viali passeggiati e chiacchierati, immense battigie romanzate, infinite arrampicate poetiche.

Per aver sofferto tanto ho anche scritto e ricucito tanto. Devo molto alla voglia di scrivere, mi ha tenuta al mondo, mi ha sostenuta laddove non avevo piedi saldi, le ali dell'immaginazione m'han sorretto con preziosa (anche se intermittente) euforia.

La vita mi ha insegnato a stare dove non avrei dovuto e troppo tardi ne ho preso coscienza. Ma ora sono viva e molto più che vegeta. Vedo e sento tutto, soprattutto ho imparato a prendere posizione, pure quelle scomode, e non ho mai provato tanto amore per me stessa.

Probabilmente non ho nulla di così originale se non l'attitudine e l'esigenza di esternare il mio intuito. Ci sono parti che censuro e su questo la psicologia potrà dare qualche spiegazione in più di me.


Eppure so che ogni parola non detta ha un peso.

Censurarsi, a volte, è un gesto di prudenza. Altre volte è paura.

Di ferire, di ferirmi.

Di dire troppo o troppo poco.

Di sembrare patetica, oppure troppo intensa per chi legge solo in superficie.

Ma io non sono nata per la superficie.

Sono fatta di abissi lenti e silenzi pieni.

E se scrivere è il mio modo di stendermi sul mondo, allora la censura è il lenzuolo tirato a metà: lascia scoperta proprio la parte più fragile.

Scrivere senza censura non è urlare tutto, è sentire tutto.

È permettere anche ai pensieri sporchi, stanchi, contraddittori, di trovare una forma e forse, un senso.

È accettare che il mio intuito non abbia bisogno di essere perfetto, ma solo vivo.






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